
La pignorabilità delle criptovalute è una questione di particolare rilevanza, stante la difficoltà tecnica di aggredire i fondi detenuti in tale forma.
In questo approfondimento si tenterà di esplicare le problematiche e le relative soluzioni, anche alla luce dei principali arresti giurisprudenziali sul tema.
SOMMARIO
1. Dove vengono conservate le criptovalute
2. Inquadramento dell’esecuzione forzata
2.1 Esecuzione mobiliare presso il debitore
2.2 Esecuzione mobiliare presso terzi
3. Giurisprudenza
CONCLUSIONE
NOTE
1. Dove vengono conservate le criptovalute
Dalla nascita di quella che possiamo definire la criptovaluta per antonomasia, il bitcoin, si è a lungo dibattuto sulla definizione da attribuire al termine criptovaluta.
Secondo il celebre dizionario Treccani trattasi di “Strumento digitale impiegato per effettuare acquisti e vendite attraverso la crittografia, al fine di rendere sicure le transazioni, verificarle e controllare la creazione di nuova valuta; denaro, moneta virtuale”.
Non sono mancate in tale ambito analisi più approfondite, come quelle già pubblicate da Crypto Avvocato e riunite nell’apposita Collana.
In particolare, per addentraci nell’argomento de quo, è indispensabile riprenderne alcuni passaggi.
In primis, la definizione fornitane dal Legislatore italiano nel 2017: “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”[1].
Una criptovaluta, dunque, può avere un valore misurabile in valuta fiat (euro, dollaro ecc.).
Ad esempio, alla data di pubblicazione del presente contributo, 1 bitcoin è scambiato a circa 9000 euro su Coinbase pro (l’exchange della piattaforma Coinbase).
Inoltre, una criptovaluta è trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.
Apparentemente, potremmo già ipotizzare che possa essere anche sottoposta ad esecuzione forzata una volta individuata…ma dove si conserva una criptovaluta?
in un “portafoglio elettronico” (c.d. wallet)
Esso contiene l’indirizzo che identifica in maniera univoca l’utilizzatore (ossia una chiave pubblica simile ad un IBAN (es.: 17muSN5ZrukVTvyVh3mT), alla quale è legata matematicamente ed indissolubilmente una chiave privata che permette di spendere le proprie criptovalute e che, dunque, va mantenuta segreta. Il wallet, accessibile con password, è utilizzabile non solo come un consueto conto, dunque inserendo le proprie credenziali sui siti di e-commerce che accettano pagamenti in valuta digitale, ma altresì attraverso un pratico QR code scansionabile.
Più precisamente si distinguono:
- hardware wallet: dispositivi specifici che permettono, in modalità off-line, sia di archiviare al proprio interno le chiavi private sia di firmare le proprie transazioni, garantendo dunque una maggior protezione dalle aggressioni tipiche della Rete;
- software wallet (es. Electrum): installabili su personal computer o altro genere di dispositivi come supporti esterni;
- web wallet: creabili on line su appositi portali noti come wallet providers (es. MyEtherWallet); quest’ultima soluzione, se da un lato risulta molto agevole sotto il profilo gestionale poiché non implica per l’utente il possesso di particolari conoscenze informatiche se non l’adozione delle misure di sicurezza idonee ad evitare intrusioni non autorizzate (autenticazione a due fattori, password complessa e diversa da quella usata per altro servizio, uso di un antivirus aggiornato ecc.), ed esclude i rischi derivanti dal detenere presso sé stessi dei valori di scambio (es. furti, rapine ed estorsioni), dall’altro richiede grande fiducia nel provider. Per le loro caratteristiche, i web wallet sono del tutto assimilabili ai cc.dd. account exchange, ossia i conti aperti sulle piattaforme per l’acquisto e lo scambio di criptovalute (…)[2].
In ogni caso, dato che il wallet si sostanzia in un semplice file contenente records di transazioni, qualora venisse compromesso si perderebbe tutto il credito in esso contenuto”[3].
In sostanza un wallet, genericamente inteso, altro non è che un portafoglio digitale utilizzato per memorizzare, inviare e ricevere valuta digitale ma, a differenza dei normali conti correnti, alcuni wallet (hardware e software) possono essere gestiti autonomamente dal proprietario, ossia senza alcun intermediario, e garantirne l’anonimato.
Questo particolare, ai fini della presente analisi è di estrema importanza, poiché ne discendono i seguenti interrogativi:
un creditore come può sapere se il debitore (apparentemente nullatenente) possiede invece un cospicuo patrimonio in criptovaluta?
Non può saperlo, a meno che non gli venga rivelato dal debitore stesso o da un altro informatore.
In tale ultima circostanza, come potrà recuperare il proprio credito?
2. Inquadramento dell’esecuzione forzata
Come noto, nel nostro ordinamento vengono utilizzati prevalentemente tre tipi di esecuzione forzata per agire coattivamente nei confronti del debitore:
- esecuzione mobiliare presso il debitore (artt. 513 ss. c.p.c.);
- esecuzione mobiliare presso terzi (artt. 543 ss. c.p.c.);
- esecuzione immobiliare (artt. 555 ss. c.p.c.).
Esclusa evidentemente l’esecuzione immobiliare, è opportuno chiedersi quale tra l’esecuzione mobiliare presso il debitore ovvero presso terzi, debba attivare il creditore per poter sottoporre a pignoramento la criptovaluta.
La risposta non è scontata e può essere ricavata solo in via interpretativa.
È opportuno ricordare infatti che siamo innanzi ad un tema ancora per lo più inesplorato dalla giurisprudenza.
2.1 Esecuzione mobiliare presso il debitore
La prima ipotesi da analizzare è l’esecuzione forzata presso il debitore, possessore di un wallet.
Ai sensi dell’art. 513 ss. c.p.c. “Ricerca delle cose da pignorare”, l’Ufficiale Giudiziario può “ricercare le cose da pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti. Può anche ricercarle sulla persona del debitore, osservando le opportune cautele per rispettarne il decoro”.
Da ciò discende che se l’Ufficiale Giudiziario trovasse in casa del debitore, ad esempio nel cassetto di un mobile, un portafoglio contenente 500,00 euro, potrebbe legittimamente sottoporli ad esecuzione forzata.
Cosa accadrebbe però se individuasse un hardware wallet o un computer con installato un software wallet contenente criptovalute?
Avrebbe ovviamente necessità delle relative chiavi di accesso.
Ipotizziamo quindi, per semplicità, che l’Ufficiale Giudiziario sia così fortunato da individuare anche un documento cartaceo indicante le credenziali per accedere ai suddetti wallet.
Potrebbe sottoporre tale documentazione a pignoramento al fine di accedere al wallet?
L’opinione dello scrivente è negativa, in quanto lettere e appunti personali sono evidentemente da ricomprendersi tra le cose assolutamente impignorabili ai sensi dell’art. 514 n. 6 c.p.c.[4].
In tale ipotesi, di pignoramento mobiliare infruttuoso, soccorre l’art. 492 comma 4 c.p.c., il quale dispone che l’Ufficiale Giudiziario “invita il debitore ad indicare ulteriori beni utilmente pignorabili, i luoghi in cui si trovano ovvero le generalità dei terzi debitori, avvertendolo della sanzione prevista per l’omessa o falsa dichiarazione” (cfr. art. 388 c.6 c.p.).
Gli interrogativi che ne conseguono sono:
il debitore dovrà dichiarare di essere possessore di criptovalute?
nel caso in cui non dichiari nulla, incorrerà nel reato di omessa o falsa dichiarazione a Pubblico Ufficiale?
Precisando ancora una volta di essere in un campo totalmente inesplorato dal diritto, è possibile esclusivamente ipotizzare degli scenari fondati sulla natura intrinseca della criptovaluta e sul tenore letterale della norma.
Sulla scorta di quanto fin qui esplicato, si ritiene che le risposte ai due precedenti interrogativi riguardanti il debitore siano variabili in base alle caratteristiche di sicurezza/anonimato del wallet.
In altri termini, nel caso in cui le caratteristiche del wallet permettano di ricondurlo univocamente al debitore, egli dovrà certamente effettuare la dichiarazione di cui all’art. 492 c.p.c., indicando altresì quante e quali criptovalute possiede.
Qualora invece le caratteristiche del wallet non consentano di ricondurlo univocamente al debitore, egli potrà anche non effettuare la dichiarazione di cui all’art. 492 c.p.c. in quanto il disposto del medesimo articolo si riferisce espressamente a “beni utilmente pignorabili” e, per le ragioni che approfondiremo meglio nel prossimo paragrafo, le criptovalute conservate in wallet “anonimi” non appaiono tra questi.
2.2 Esecuzione mobiliare presso terzi
Parzialmente diversa è l’ipotesi in cui il debitore è in possesso di un web wallet.
Come noto agli operatori del settore, infatti, l’esecuzione forzata / pignoramento può essere effettuata anche presso terzi, cui viene notificato l’atto unitamente al debitore.
Tale atto contiene – fra le altre cose – l’invito rivolto al terzo ai sensi dell’art. 547 c.p.c. a dichiarare “di quali cose o di quali somme è debitore o si trova in possesso e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna” in favore del debitore.
In tal caso, il problema dell’anonimato potrebbe ripresentarsi a seconda dell’ammontare di criptovalute detenute dal debitore.
Prendendo a riferimento il principale exchange di criptovalute attualmente attivo, ossia Binance, deve infatti considerarsi che, fino all’ammontare di due Bitcoin non viene richiesto alcun documento identificativo agli utenti.
In altri termini, per potersi iscrivere e depositare criptovalute è sufficiente solo un indirizzo mail e una password.
Ne deriva più chiaramente che:
se il terzo gestore della piattaforma conosce l’identità del possessore del wallet farà una dichiarazione positiva e il procedimento si concluderà con l’assegnazione delle criptovalute al creditore.
se invece non la conosce, poichè il debitore detiene meno criptovalute di quanto richiesto per essere puntualmente identificato, alla ricezione dell’invito a dichiarare di esser o meno debitore dell’esecutato, non potrà che rispondere negativamente[5].
3. Giurisprudenza
In merito all’oggetto della presente analisi ad oggi non esistono pronunce dei giudici dell’esecuzione.
Tuttavia, altre pronunce di Corti italiane ed europee in materia di criptovalute possono costituire senza dubbio le fondamenta di future interpretazioni e, pertanto, può essere utile alla presente analisi citarle:
in ambito di conferimento di capitali tramite criptovaluta si segnala il noto decreto 26/2018 della Corte d’Appello di Brescia e la nota critica pubblicata da autorevole dottrina [6].
Relativamente invece alla tassabilità delle criptovalute va menzionata la recentissima sentenza del TAR del Lazio 1077/2020 del 27/01/2020, secondo cui le criptovalute vanno considerate, ai fini della tassazione, come redditi finanziari esteri.
Per quel che attiene alla qualificazione della natura della valuta digitale certamente degna di nota è la sentenza nr. 18 del 21/01/2019 del Tribunale di Firenze sez. fallimentare secondo cui le criptovalute possono essere considerate “beni” ai sensi dell’art. 810 c.c. e più precisamente beni fungibili.
In ambito europeo si segnala infine la Sentencia num. 326/2019 del Tribunale Supremo Spagnolo che riconosce l’immaterialità della criptovaluta pur attribuendogli la qualifica di “bene”.
CONCLUSIONE
Il ragionamento logico-giuridico fin qui condotto e le suddette pronunce giudiziali inducono a ritenere anzitutto che le “criptovalute” siano da considerarsi, a tutti gli effetti, come moneta, e cioè quale mezzo di scambio nella contrattazione in un dato mercato, atto ad attribuir valore, quale contropartita di scambio, ai beni e servizi, o altre utilità, ivi negoziati. (cfr. Corte d’Appello di Brescia decr. 26/2018).
In quanto tali, sono soggette a tassazione ma, in virtù della loro a-territorialità, sono considerate dall’ordinamento come fonte di reddito estero (cfr. Tar del Lazio sent. 1077/2020).
Le valute virtuali sono, come indica il nome stesso e come suggerito dalla giurisprudenza spagnola (cfr Tribunale Supremo sentencia núm. 326/2019), immateriali.
Le criptovalute conservate in hardware o software wallet possono essere sottoposte a pignoramento mobiliare presso il debitore purché le caratteristiche del wallet consentano di ricondurlo univocamente al soggetto esecutato.
Le criptovalute conservate in web wallet possono essere sottoposte a pignoramento presso terzi purché il gestore della piattaforma sia in grado di identificarne il titolare (sotto determinate soglie di capitale, infatti, le procedure di identificazione implementate sono del tutto insufficienti a garantire il pignoramento).
In definitiva, considerate le caratteristiche sottese al concetto stesso di valuta digitale, l’esecuzione appare particolarmente complessa e foriera di potenziali problematiche di diversa natura (anonimato del possessore, a-territorialità, cooperazione del terzo) che potrebbero comportare, nella maggior parte dei casi l’infruttuosità dell’azione esecutiva.
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NOTE
[1] Articolo 1, comma 2 lettera qq), D.lgs 25 maggio 2017, n. 90
[2] Secondo la giurisprudenza (Trib. Di Firenze, sez. fallimentare, sentenza nr. 18 del 21/01/2019) tale rapporto sarebbe ascrivibile nel novero del deposito irregolare ex art. 1782 c.c..
[3] BERTOLINI G. (2019), “CRIPTOVALUTE – Cosa sono”, Crypto Avvocato.
[4] Recita infatti tale articolo “Oltre alle cose dichiarate impignorabili da speciali disposizioni di legge, non si possono pignorare (omissis) 6) le decorazioni al valore, le lettere, i registri e in generale gli scritti di famiglia, nonché i manoscritti, salvo che formino parte di una collezione;”
[5] Nel caso di Binance, non può trascurarsi peraltro la circostanza che la piattaforma ha sede a Malta e l’immaterialità della criptovaluta rende pressoché impossibile la sua identificazione territoriale.