
Polemica sterile e mancanza di alternative caratterizzano il dibattito italiano in ogni campo e giovano sempre solo ai prodotti stranieri, come Hyperledger.
Giovedì 14 novembre, infatti, alle ore 11:00, presso il Salone degli Arazzi del Ministero dello Sviluppo Economico verranno presentati i risultati del Progetto pilota con IBM per l’applicazione della tecnologia Blockchain nel settore del tessile per la valorizzazione e protezione del Made in Italy.
Non sono mancate anche in occasione di questo annuncio polemiche del tutto sterili sulla natura di Hyperledger rispetto ai sacri dettami impartiti da S. Nakamoto con la sua white Bibbia, colui che da algoritmo si è fatto uomo per portarci la lieta novella.
Ripetiamo ad alta voce, dalla lettera di Satoshi agli infedeli della Rete open, la blockchain è pubblica, permissionless, open source.
Come ogni buon dogma, anche questo è stato acquisito alla lettera, senza alcuna analisi critica dalla congrega dei “Bitcomani”.
I fondamentalisti, ortodossi della blockchain, hanno infatti giurato di difenderlo, polemizzando pressoché su ogni progetto si discosti da esso, senza nemmeno un’analisi nel merito.
Gli assunti su cui si fonda il dogma e che richiedono all’utente un vero e proprio atto di fede, sono che Bitcoin è:
- la soluzione al male del secolo, ossia la mancanza di fiducia fra gli uomini;
- l’unico in grado di portare prosperità e benessere senza intermediazione di soggetti di potere;
- un protocollo senza criticità, rischi di centralizzazione, in definitiva l’unico che abbia senso prendere in considerazione.
Il dogma impone di tralasciare la piccolissima considerazione che il protocollo ha una finalità talmente precisa, ossia la gestione della criptovaluta, da risultare inservibile per altre.
Se così non fosse, quale sarebbe stata la ratio di Ethereum?
Che utilità avrebbe avuto la creazione di un protocollo con medesimo sistema di consenso (proof of work) ma incentrato sullo sviluppo di applicazioni su base distribuita per mezzo di smart contract?
Ma se il dogma è scalfibile, allora forse possiamo ipotizzare che là fuori, in quell’universo popolato da miliardi di protocolli, Bitcoin non sia l’unica blockchain?
Hyperledger, in pieno stile Linux, è un sistema modulare per la creazione di blockchain; un complesso di progetti open source, in sviluppo continuo da parte di una comunità florida e dotato di un promoter colossale, IBM, che agisce dall’esterno.
Il sistema è talmente modulare che, nello sviluppo di un progetto è possibile:
- adottare soluzioni già testate e algoritmi di consenso pre-impostati come la proof of elapsed time (cfr. Hyperledger Sawtooth);
- partire da zero;
- ibridare, mettendo insieme cioè proprie peculiari impostazioni come varianti del proof of stake ma per mezzo delle loro librerie.
Insomma, le possibilità sono molteplici e sta all’azienda e agli sviluppatori saperle implementare.
Se a ciò si aggiungono le ovvie considerazioni che:
- ogni modello di business richiede uno specifico protocollo informatico;
- vi sono parametri di legge da rispettare;
si comprende la totale sterilità del dogma ripetuto, come un disco rotto in ogni occasione dai Bitcomani.
E se anziché criticare Hyperledger di per sé, si iniziasse a criticare il modo inconsulto in cui è stato adoperato dalla specifica azienda/ente?
Con tale approccio, ci si renderebbe conto, ad esempio, che nel caso di Hyperledger / Walmart il problema non è il numero di nodi della Rete ma che appartengano tutti alla medesima azienda.
Cosa ben diversa sarebbe stata invece se Walmart, Carrefour ecc avessero realizzato un protocollo “condiviso”.
Con nodi appartenenti ad aziende in competizione fra loro, infatti, avrebbero garantito maggiormente l’inalterabilità del dato.
Dunque, se si dovesse criticare in modo utile il progetto di tracciabilità del made in italy, senza incorrere in inutili polemiche, personalmente mi prenderei almeno la briga di scoprire il modo in cui Hyperledger è stato specificatamente utilizzato, anche se richiederebbe molto più tempo.
Anche perché, si potrebbe addirittura esser tacciati di scarsa onestà (intellettuale), considerato che molto spesso, chi polemizza su Hyperledger a priori, promuove al contempo propri protocolli, non di certo perfetti o originali per finalità e caratteristiche.
Del resto, in questo Paese Gattopardiano, la storia si ripete pressoché pedissequamente a cicli.
Oggi viviamo l’ennesimo boom di interesse su peculiari tecnologie, dal quale scaturisce come sempre una mastodontica mole di finanziamenti pubblici per formazione e progetti.
Come sempre, a causa della scarsa capacità di programmazione su medio lungo periodo che ci caratterizza, ci siamo trovati grandemente impreparati sotto il profilo culturale, anche solo nel valutare la competenza dei cc.dd. esperti.
Ne sono derivati fuffomani, bitcomani, santoni dell’innovazione, figure mitologiche per la loro capacità di vendere fumo ad aziende e utenti speranzosi di risollevarsi della crisi in virtù di qualche miracoloso ritrovato tecnologico.
A queste dinamiche non v’è tecnologia che a mio avviso possa porre rimedio e in ogni caso, la speranza che in Italia si ripone così spasmodicamente sull’utilizzo della blockchain per eliminare la necessità di avere fiducia nell’altro, è l’emblema del fallimento del nostro sistema culturale.
Peraltro, va sfatato un “ultimo” mito riguardo a queste rivoluzionarie nuove tecnologie, ossia che la fiducia non viene mai del tutto meno.
Essa si sposta semplicemente verso soggetti sempre meno individuabili dall’utente man mano che si risale all’apice della catena informatica, dall’invisibile produttore di hardware, all’autorità certificatrice (tipicamente statunitense) (e non c’è da stare tranquilli considerati gli scandali che hanno coinvolto nel 2017 Bitmain, il principale produttore di hardware per il mining di bitcoin, nonché titolare dei più grandi pool al mondo).
La fiducia persiste, inevitabilmente, perché allo stato attuale non possiamo del tutto eliminare l’umano dai processi produttivi (per fortuna a mio avviso), così come persiste un rischio di centralizzazione in ogni protocollo, che derivi dall’accumulo di potenza di calcolo (cfr. proof of work), dall’accumulo di stake (cfr. proof of stake) ecc.
Gran parte dei protocolli infatti si pone in piena conformità allo spirito capitalista liberista che caratterizza il nostro tempo, consentendo se non addirittura incentivando dinamiche speculative e di accumulo di risorse ben note in molteplici altri settori.
Se tali tecnologie hanno un’incidenza sulla gente meno abbiente, al momento dipende esclusivamente da fattori collaterali alla speculazione e alle strategie geopolitiche in atto sullo scacchiere globale, in particolare fra U.S.A. e Cina, i reali padroni della Rete.