AMAZON – Nuove frontiere del taylorismo

23 Agosto 2021 -

Amazon adotta un sistema di lavoro di stampo tayloristico. Sfruttando le migliori tecnologie a disposizione, l’analisi di big data, gravissimi vuoti normativi / fiscali e la profonda depressione economica dei territori in cui insedia i propri centri logistici, Amazon è riuscita in poco tempo a divenire la più grande industria di commercio online.

In questo approfondimento, utilizzando estratti delle interviste effettuate ai dipendenti Amazon da giornalisti infiltrati nei centri di logistica, si intende analizzare le principali strategie di controllo utilizzate da Amazon sul territorio, sui lavoratori e sui manager, alla luce dell’approccio dell’identità sociale, al fine di comprendere il malessere dei lavoratori, la loro condizione sociale e biopsicologica, ed il motivo per cui, molti manager di questa grande multinazionale, seppur in buona fede, fatichino a vedere le condizioni dei loro sottoposti.

SOMMARIO

1. Massimi profitti, zero tasse

2. L’organizzazione di Amazon secondo la teoria dell’identità sociale

2.1 Eustress

2.2 La normalizzazione progressiva della percezione di stress lavoro correlato

2.3 Effetti della curva di produttività

2.4 Identificazione organizzativa

CONCLUSIONE

NOTE

1. Massimi profitti, zero tasse

Amazon, con il suo fatturato medio / annuo di 40 miliardi di dollari, è la più grande industria di commercio online, in pratica il più grande negozio del mondo. 

Nell’anno 2020, durante la pandemia, il suo fatturato è stato di 44 miliardi, ossia 12 in più dell’anno precedente.

Nonostante ciò, le tasse pagate si attestano su percentuali irrisorie e, talvolta, il colosso dell’e-commerce riesce addirittura a maturare crediti di imposta.

Nel 2003, infatti, Amazon ha stabilito in Lussemburgo la sede legale / fiscale della divisione europea, deputata a gestire le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia.

Ciò ha consentito all’azienda:

  • di non rendere noti i bilanci con i ricavi relativi ai singoli paesi in cui opera;
  • ottenere una tassazione agevolata, sugli utili, al 3%.

Alla luce di ciò, nel 2020, nonostante l’incremento di fatturato complessivo di cui si è detto, Amazon ha potuto registrare in Europa perdite per 1,2 miliardi di euro e, di conseguenza, maturare un credito di imposta di 56 milioni di euro.

Ci si può legittimamente domandare come sia possibile che una delle più floride aziende del mondo, che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’intera Italia, non riesca a guadagnare in Europa neppure un centesimo ma, soprattutto, come possa soggiacere unicamente alla disciplina fiscale del Lussemburgo, nonostante la logistica sia distribuita in diverse nazioni.

In Italia, ad esempio, il magazzino di Amazon è a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza e impiega per lo più dipendenti italiani.

All’interno lavorano circa quattrocento persone, a cui si aggiungono, nel periodo di Natale, altre cento persone che trovano alloggi in hotel privi di riscaldamento offerti dall’azienda.

Il sistema di lavoro all’interno di Amazon è di stampo tayloristico. Nelle interviste rilasciate dai dipendenti al giornalista infiltrato nella logistica, Jean Baptiste Malet – autore di “En Amazonie – Un infiltrato nel migliore dei mondi” (Kogoi Edizioni) – le parole che ricorrono sono:

“Ci trattano come se fossimo delle macchine”.

In effetti, i lavoratori di Amazon sono costretti a correre da una parte all’altra del magazzino muniti di:

  • lettore del codice a barre con navigatore integrato per l’individuazione di pacchi;
  • una cintura che monitora ogni spostamento e determina il tempo che possono impiegare nel passare da un punto all’altro del magazzino.

La retribuzione varia tra i 1.000,00 e i 1.200,00 €, in base alla curva di produttività del dipendente stilata dagli analisti dell’azienda.

Tale curva di produttività deve essere costantemente aggiornata in via incrementale.

2. L’organizzazione di Amazon secondo la teoria dell’identità sociale

Il rendimento è stilato su base statistica, quindi su un campione medio, e non individuale.

Il campione medio è un individuo di 27 anni in piena salute.

Pertanto, si chiede a donne e uomini anche di mezza età, e con patologie di varia natura, di mantenere i ritmi di un modello ideale.

Deve considerarsi inoltre che:

  • i lavoratori sono assunti con contratti interinali di quindici/dieci giorni, a cui seguono proroghe dapprima di soli cinque giorni e poi di dieci, venti e massimo un mese, fino al rinnovo poi settimanale del contratto al termine delle tre proroghe stabilite inizialmente;
  • Amazon insedia i suoi magazzini sulla base di due criteri principali:
    • vicinanza ad una autostrada per motivi logistici
    • tasso di disoccupazione sul territorio.

Tali fattori generano due estremità della curva statistica, che agiscono all’interno del campione in netta contrapposizione: se il lavoratore di media età cercherà di rendere il meno possibile pur restando nei tempi corretti, il lavoratore giovane avrà tutto l’interesse ad aumentare il proprio carico di lavoro per consolidare la propria posizione all’interno dell’azienda.

È importante sottolineare come Malet sia asceso gradualmente dal ruolo di magazziniere a quello di manager logistico all’interno dell’organizzazione prima di licenziarsi e che proprio nello svolgimento di tale ruolo ha scoperto gli effetti nefasti dell’ideologia Amazon.

Vale la pena riportare a tal proposito le sue parole durante l’intervista rilasciata all’Unità il 5 dicembre 2013:

“Non avevo dubbi sul fatto che il lavoro fosse faticoso ma quello che non avrei mai immaginato era il carattere ideologico del lavoro presso Amazon, rappresentato dai simboli e da tutto ciò che viene scritto anche negli slogan.

E’ importante dirlo in inglese, cioè “Work hard. Have fun. Make history”, perché la lingua inglese è quella che viene veicolata in questi capannoni di Amazon, nonostante si trovino in Francia, in Italia e in Germania.

[…] Mi ha colpito molto quando stavo dentro Amazon l’atteggiamento così molto amichevole del mio manager, da pacche sulle spalle, che mi diceva dopo i turni di lavoro: “Dai allora questa sera vai a divertirti…”.

Io pensavo fosse ironico, che scherzasse o mi prendesse in giro, solo dopo ho capito che non lo era.

Quando diventai manager mi resi conto che faceva parte dell’aspetto ideologico e dei valori che promuoveva quest’azienda, e confrontandomi anche con dei colleghi, degli operai, che lavoravano in Germania mi resi conto che molti avevano ceduto in un certo senso a questa pressione, divertendosi a fare delle cose estremamente stupide in certe serate o a fare i clown nei ristoranti, perché a un certo punto Amazon li aveva manipolati in maniera tale da far credere loro che Amazon fosse la loro famiglia, che tutti fossero amici.

Un ingegnere, che è stato in Lussemburgo nella sede manageriale senior di Amazon, mi raccontava che un giorno faceva formazione e gli è stato chiesto di presentarsi davanti i suoi colleghi (esplicando quindi dove aveva lavorato, dove si era formato) e cosi lui ha fatto…quando aveva finito, i suoi colleghi manager hanno cominciato ad acclamarlo, urlando, incoraggiandolo come dei pazzi… e questo naturalmente aveva gratificato molto questa persona, colpendola positivamente, perché è naturale che l’essere umano ha una emotività che se vai in un posto di lavoro e la gente ti acclama in questo modo… ti senti gratificato, apposto con te stesso. Soltanto dopo ho capito che era una delle tecniche di manipolazione di Amazon sul collettivo.”

In un servizio andato in onda su La7 il 23 aprile del 2017, a Tareq Rajjal e Beatrice Moia, rispettivamente direttore logistico del magazzino di Piacenza e Sindacalista, sono state chieste alcune considerazioni sulle strategie ed i metodi di lavoro di Amazon.

Anche in questo caso vale la pena riportare e trascrivere alcuni passaggi significativi, prima di ricollegare il quadro esposto alla cornice teorica espressa dalla S.I.T nelle strategie di management.

“Tareq Rajjal: questa è un’industria e come tutte le industrie dobbiamo monitorare il nostro business.

Dobbiamo rispettare il nostro Business time, cioè ognuno ha un tempo che deve rispettare.

Loro lavorano in una zona limitata, quindi non devono correre da una parte all’altra del magazzino.

Intervistatrice: quindi lei mi sta dicendo che qui dentro il magazzino non si può correre? Cioè non si corre?

Tareq Rajjal: è vietato correre dentro al sito per motivi di sicurezza.

Lavoratore: io ho fatto 9 mesi dentro al pick ed ho perso venti chili.

Beatrice Moia: le patologie al tunnel carpale, al collo o alla schiena non si contano. Quando si scrive il foglio dedicato al malessere, i manager fanno pressioni affinché non si includa la dicitura “correlato al lavoro”.

Tareq Rajjal: questo lavoro qua, posso dire che non è usurante. Assolutamente non è stressante, è un lavoro come tutti gli altri. Loro hanno delle pause, di trenta minuti del pranzo. Poi ci sono le pause fisiologiche. La gente può andare quando vuole, dove vuole.”

I punti di vista sono evidentemente discordanti.

Da un lato lavoratori e/o dirigenti che appaiono entusiasti, dall’altro Malet che descrive una realtà novecentesca che manipola la psiche e che di tecnologico ha solo gli strumenti utilizzati per raggiungere l’asservimento totale del lavoratore.

Infine, la sindacalista che rappresenta la difficoltà di proteggere i lavoratori da questo sistema.

E’ evidente che senza strumenti o modelli di lettura della realtà organizzativa, risulti compito arduo sistematizzare e ordinare la realtà lavorativa descritta.

2.1 Eustress

Dal punto di vista di Malet possono essere colti diversi spunti interessanti.

Da un lato, alcuni lavoratori esausti e dalle risorse cognitive prosciugate hanno sentito il bisogno di ricevere il supporto sociale dell’organizzazione per trasformare lo stress negativo in eustress.

Per eustress si intende l’aspetto positivo dello stress; una adeguata quantità di stress, infatti, può fornire stimoli positivi per indirizzare l’organismo a una risposta reattiva e attiva alla vita.

Cedendo alla pressione dello stress cronico lentamente imposta da Amazon, inoltre, hanno finito per identificarsi con l’azienda, ossia renderla parte della propria identità.

Questo spiega, ad esempio, perché alcuni lavoratori abbiano difeso l’azienda sebbene fossero sottoposti a turni di lavoro massacranti (ad es. i magazzinieri).

La salienza della categoria sociale “Lavoratore di Amazon” è sempre attiva ed in più, a causa dell’identificazione organizzativa, quest’ultima è associata all’idea stessa di “famiglia”.

2.2 La normalizzazione progressiva della percezione di stress lavoro correlato

La percezione dello stress cronico diventa assolutamente reale nel momento in cui il lavoratore viene di fatto obbligato a rispettare una curva di produttività incrementale ossia con progressivi aumenti di produttività e, contemporaneamente, riduzione dei tempi di consegna dei pacchi.

Lo stress iniziale e la destabilizzazione, che permettono ad Amazon di mantenere il contatto con il lavoratore, sono sicuramente dati:

  • dalla caratteristica del contratto che determina un regime di costante precarietà lavorativa ed emotiva (visto che viene rinnovato con proroghe di appena dieci giorni non è possibile alcuna progettualità specifica);
  • dall’assenza di lavoro sul territorio di insediamento del magazzino;
  • dalla mancanza di un titolo di studio adeguato e spendibile in altri territori.

Questi elementi, è bene evidenziarlo, sono noti agli analisti dell’azienda.

Alla luce di ciò risulta comprensibile perché alcuni lavoratori cedano alla pressione dell’organizzazione e accettino questi regimi di lavoro.

Meno comprensibile risulta la ragione che spinge gran parte dei lavoratori a sfinirsi anche quando sopraggiungono problemi di salute.

Dalla ricerca scientifica (Herzberg, Maslow, Mc Clelland), infatti, sappiamo che retribuzione adeguata e pause dignitose per mangiare o andare in bagno, sono fattori igienici ossia condizione necessaria e indispensabile per essere motivati a lavorare.

Privati di essi i lavoratori smettono lentamente di dare il proprio contributo, non sentendo garantita la loro sussistenza primaria [1].

In altri termini, se è vero che lo stress viene meno in seguito dell’identificazione organizzativa, è anche vero che la percezione distorta dello stress lavoro correlato non motivi i lavoratori a continuare nei loro turni per un crescente numero di giorni.

Tuttavia, dalle interviste riportate nel primo capitolo risultano dati in palese contraddizione con la letteratura scientifica.

Da un lato, infatti, il direttore logistico non comprende gli aspetti aberranti della propria realtà sociale e, dall’altro, i lavoratori sottostanno a pessime condizioni lavorative e regimi di stress continuato, aumentando mese dopo mese la propria curva di produttività.

Ciò non pare essere in alcun modo conciliabile con dati / campioni di altre aziende o multinazionali che utilizzano simili strategie di management su base tayloristica.

2.3 Effetti della curva di produttività

Il discrimen fra Amazon e gli altri campioni esaminati dalla letteratura scientifica parrebbe individuabile anzitutto proprio nella curva di produttività.

Essa infatti persegue due finalità:

  • la prima ovviamente è esplicitare al lavoratore la domanda dell’azienda di maggiore produttività;
  • la seconda, implicita, è la progressiva normalizzazione del modello di interpretazione dello stress. Attraverso gli aumenti di retribuzione, infatti, i fattori igienici (basilari) col tempo vengono percepiti come fattori motivanti mentre i reali fattori motivanti vengono percepiti come superflui [2].

Peraltro, a causa dell’identificazione organizzativa di cui si è detto, per i manager è difficoltoso vedere la realtà sociale vissuta dai dipendenti.

Attraverso i reportage è possibile toccare con mano gli effetti nefasti di queste strategie e rendersi conto della pericolosità di un “noi” in ambito valoriale e aziendale.

Vale la pena ricordare che nelle interviste effettuate da La7 molti lavoratori sceglievano consapevolmente di difendere l’azienda:

“Intervistatore: non pensa che quest’azienda vi stia lentamente sfruttando?

Lavoratore: No, non credo; è un lavoro come gli altri, alla fine. Vogliono dei risultati, e se lavoro bene, guadagno di più; è cosi anche da altre parti, non ci trovo nulla di male”.

2.4 Identificazione organizzativa

Per avere un quadro più completo può essere utile spiegare il modello della salienza dell’identità sociale.

Esso è un approccio teorico che comprende la Teoria dell’Identità Sociale (S.I.T – Tajfel & Turner, 1979) e la Teoria della Categorizzazione del Sé (S.C.T – Turner et al., 1987).

L’approccio ritiene che una parte fondamentale dell’identità delle persone sia legata all’appartenenza ai gruppi sociali. La valenza positiva o negativa di questa identità è legata al contesto sociale di riferimento, in particolare all’esito di processi di confronto sociale con gruppi diversi dal proprio (o outgroup).

Nella elaborazione cognitiva della S.C.T si teorizza che il contesto renda saliente il livello di categorizzazione (individuale, sociale o umano).

Partendo da queste semplici basi, si dipanano, ad esempio, delle applicazioni interessanti:

  • categorizzazione: l’individuo costruisce “categorie” funzionalmente discriminanti di appartenenza, basate su fattori di vario tipo (per età, genere sessuale, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza politica, tifo per una squadra di calcio, ideologie di riferimento, appartenenza etnica, ecc.), tendendo a minimizzare le differenze tra i soggetti all’interno della categoria, massimizzando al contempo le differenze con le categorie contrapposte;
  • identificazione: le varie appartenenze ai diversi gruppi forniscono la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale. L’identità sociale è in effetti costituita da una gerarchia di appartenenze multiple. È possibile distinguere tra Identità Situata (in un dato momento un’appartenenza può essere maggiormente saliente rispetto ad altre) ed Identità Transitoria (un’appartenenza categoriale momentanea, legata a particolari situazioni/momenti; ad es. chi si autopercepisce ed autocategorizza come “tifoso” solo in occasione dei Mondiali di calcio e non in altre situazioni);
  • confronto sociale: l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup di riferimento, con una condotta marcatamente segnata da bias valutativi in favore del proprio ingroup. Il proprio gruppo viene implicitamente considerato “migliore” rispetto agli “altri”, che vengono metodicamente svalutati o confrontati in chiave critica. “Corollario” di questo processo è che parte della propria autostima individuale può derivare anche dalla percezione di “superiorità” del proprio ingroup rispetto agli outgroups di riferimento, e questo fenomeno può quindi portare alla continua ricerca di occasioni di “confronto sociale” (esempi classici sono i continui confronti tra opposte tifoserie del tifo organizzato, o lo sviluppo di atteggiamenti razzisti nei confronti degli immigrati).

La S.I.T si è dimostrata uno dei modelli teorici di mesolivello più euristici della psicologia sociale dei rapporti intergruppo, influenzando profondamente sia lo sviluppo di questa linea di ricerca in ambito accademico, sia le teorizzazioni e le ricerche su fenomeni sociali quali:

  • il razzismo;
  • le tensioni internazionali;
  • le dinamiche di conflitto intergruppo;
  • i fenomeni di marginalizzazione sociale;
  • i rapporti interetnici;
  • i fenomeni aziendali e lavorativi.

Riportando il discorso sul piano aziendale, possiamo comprendere come la S.I.T produca anche dei processi psicologici molto importanti come, ad esempio, l’identificazione sociale, che è un processo attraverso cui il sé viene identificato e classificato come parte di una categoria sociale.

Dunque, quando si assegnano alcune caratteristiche ai gruppi sociali a cui apparteniamo (ad es. donne o uomini, o lavoratori di una multinazionale) e quando si stabilisce il valore di tali caratteristiche (e dei gruppi) attraverso il confronto sociale (noi lavoratori di Amazon), ciò ha automaticamente dei riflessi sul concetto di sé.

L’identità sociale non fa riferimento solo alla consapevolezza dell’appartenenza (dimensione cognitiva) ma anche al significato emotivo (valutativo) associato a tale appartenenza (“…mi sono sentito in colpa, quando non mi hanno richiamato” – lavoratore di Amazon).

Ecco perché gli individui sono motivati nel confronto sociale ad ottenere, per i gruppi a cui appartengono, una distintività positiva.

Coloro che appartengono a gruppi valutati in modo positivo (alto status) dovrebbero essere motivati a mantenere e ad innalzare la propria identità sociale positiva ed è proprio su questo “come” che agiscono le strategie di management di Amazon sulla curva di produttività.

Una caratteristica centrale della S.I.T è la capacità di prevedere diverse strategie che i membri, ma anche le organizzazioni, possono adottare per fronteggiare la propria condizione o cercare di migliorare la propria identità sociale.

Vediamole nello specifico e colleghiamole al modello aziendale di Amazon:

  • mobilità individuale: si tratta di una strategia individuale in cui la persona tenta di sfuggire, negare, o evitare l’appartenenza ad un gruppo sociale svalutato e cerca invece di “passare” ad un gruppo valutato positivamente (da magazziniere, a gestore del magazzino: il caso di Tareq). La mobilità individuale quindi enfatizza le differenze tra il singolo individuo e il gruppo di appartenenza (“questo lavoro non è usurante, io ce l’ho fatta” / “in realtà questo è un lavoro come gli altri”).
  • creatività sociale: fa riferimento al processo per cui i membri di un gruppo socialmente svalutato, o una organizzazione, cercano di ridefinire il confronto intergruppo rappresentando il proprio gruppo in termini di caratteristiche positive piuttosto che negative (“qui se mi impegno mi pagano di più”). La creatività sociale può realizzarsi in tre modi:
    • concentrandosi su altre caratteristiche di gruppo per effettuare il confronto (ad es. confrontare i gruppi in termini di amichevolezza piuttosto che di successo economico – lo fa anche Amazon quando dice di non fare differenze interetniche e di accogliere ogni lavoratore, indipendentemente da orientamento sessuale o appartenenza etnica);
    • includendo altri gruppi nel confronto (ad es. migranti che confrontano la propria condizione non con i membri della comunità ospitante ma con quelli della comunità di origine. Lo fa anche Amazon quando propone il confronto con i rendimenti di lavoratori di altri magazzini);
    • cambiando il significato degli attributi associati al basso status dell’ingroup (ad es. “Nero è bello” – lo fa anche Amazon quando propone un modello statistico di rendimento del lavoratore. Non importa che tu sia anziano, o giovane, ti viene chiesto in entrambi i casi di rendere e generare valore per l’azienda. Di fatto, si sta cambiando il modello valoriale del lavoratore negando in maniera intrinseca la sua appartenenza identitaria individuale).

Riprendendo adesso il discorso riportato dall’intervista dell’unità a Jean Baptiste Malet sui manager del Lussemburgo, è possibile analizzare come Amazon attui le proprie strategie di management volte alla promozione dell’identificazione organizzativa.

“Un ingegnere, che è stato in Lussemburgo presso la sede manageriale senior di Amazon, mi raccontava che un giorno faceva formazione e gli è stato chiesto di presentarsi davanti i suoi colleghi (esplicando quindi dove aveva lavorato, dove si era formato) e cosi lui ha fatto… quando aveva finito, i suoi colleghi manager hanno cominciato ad acclamarlo, urlando, incoraggiandolo come dei pazzi…e questo naturalmente aveva gratificato molto questa persona, colpendola positivamente, perché è naturale che l’essere umano ha una emotività che se vai in un posto di lavoro e la gente ti acclama in questo modo… ti senti gratificato, apposto con te stesso” [Malet, 2013].

Con questa procedura nelle assunzioni di nuovi manager, Amazon manipola la valutazione emotiva e cognitiva del lavoratore appena entrato all’interno dell’azienda.

In altri termini, producendo una valutazione emotiva “calda” del tutto slegata però dal contesto, il nuovo assunto si sentirà spiazzato e tenderà ad incamerare, specie nei primi mesi, un’alta salienza identitaria a livello organizzativo.

Com’è definibile “identificazione organizzativa”?

“La concezione di appartenere ad un gruppo, nonché, il valore e il significato emotivo legato all’appartenenza a quel gruppo” (Tajfel 1978, in Smidts, Cees, Van Riel & Pruyn, 2000).

Dutton, Dukerich, & Harquail (1994) sostengono che gli individui si identificano con la propria organizzazione quando incorporano le sue caratteristiche nel concetto di sé.

Come riportato da Smidts, Cees, Van Riel & Pruyn (2000) in questa definizione si possono distinguere due elementi:

  • una componente cognitiva;
  • una componente affettiva.

La prima indica la tendenza di condivisione degli interessi tra persona e organizzazione (Mael & Ashforth, 1992), l’individuo si sente e si riconosce come parte del gruppo.

La seconda fa riferimento al sentimento di orgoglio, importante per creare un’immagine positiva dell’organizzazione.

Gli effetti di un’alta identificazione organizzativa del dipendente sono positivi per l’organizzazione stessa poiché egli sarà più propenso a mostrare impegno verso di essa (Ashforth & Mael, 1989).

L’individuo si sentirà così più coinvolto in prima persona, tenderà a ottenere risultati più soddisfacenti sul piano individuale e per l’organizzazione attraverso la prestazione (Mathieu & Zajac, 1990), in particolare nell’ambito dei servizi, dato che sono gli stessi lavoratori a giocare un ruolo cruciale nella soddisfazione dei clienti (Zeithaml & Bitner, 1996).

Partendo quindi dall’idea che l’identificazione organizzativa abbia un effetto positivo sul lavoro e che sia così riconducibile a una forma di benessere, s’ipotizza come fenomeni che sembrano ripercuotersi sulla sua salute, quali l’esaurimento emotivo e il continuo sforzo che il mascheramento delle reali emozioni provate produce, abbiano un impatto sull’identificazione organizzativa, e viceversa.

Chi gestisce le strategie organizzative in Amazon ha compreso che gratificare l’identità personale di un individuo, anche senza alcuna motivazione razionale, spiazza il lavoratore rendendolo vulnerabile, aumentando il suo engagement e commitment verso l’organizzazione, risalendo pertanto dall’effetto (il commitment) alla causa (l’identificazione organizzativa) (Gabrielli, G., Profili, S., 2016).

Con committment si intendono tutti quei comportamenti di impegno, motivazione, senso del dovere, di appartenenza e di responsabilità degli individui nei confronti della propria azienda.

Nei dipendenti dei magazzini questo processo è più lungo e graduale (a causa anche della strategia di management parallela di modifica del modello percettivo dello stress sulla categorizzazione del sé) ed avviene anche attraverso la promozione e la costruzione di un sistema valoriale e ideologico ben preciso, di cui parla lo stesso Malet.

L’intero sistema si può riassumere nell’emblematica frase “Work hard, work fun and make history”, sparsa per l’intero magazzino sotto forma di simboli, slogan e immagini.

Amazon, in un certo senso, come confronto sociale usa la storia umana e tutte la altre aziende del mondo. Da questo punto di vista, il fatto che Bezos stesso, talvolta, visiti personalmente i magazzini non è una semplice trovata pubblicitaria ma un chiaro e preciso messaggio ai dipendenti in merito al modello aziendale e ai valori che egli propone.

I manager, d’altro canto – essendone stati a loro volta fruitori passivi – sono tenuti a degli atteggiamenti paternalistici nei confronti dei dipendenti dei magazzini. Questo produce l’internalizzazione di un sistema valoriale organizzativo che già di per sé promuove una identificazione tutta volta al benessere esclusivo dell’azienda ed ai suoi profitti.

Dall’altro lato fa vedere al lavoratore come sia sempre la stessa azienda ed organizzazione la sua stessa famiglia capace di premiarlo (con fattori igienici e quindi dovuti in realtà) o punirlo (ci si riferisce alla situazione di destabilizzazione vissuta dal lavoratore a causa della precarietà del contratto interinale e delle sue successive proroghe).

Durante un’intervista, un lavoratore a tal proposito ha confessato:

“Una volta non mi hanno chiamato e mi sono sentito come se non avessi fatto abbastanza rispetto agli altri” [La7, 2017].

A lungo andare è facilmente intuibile come questo generi dipendenza emotiva con sfondi depressivi oppure patologie fisiche dal punto di vista lavorativo, come sottolinea la stessa sindacalista Beatrice Moia quando afferma che:

“Le patologie al tunnel carpale, al collo o alla schiena non si contano. Quando si scrive il foglio dedicato al malessere, i manager fanno pressioni affinché non si includa la dicitura “correlato al lavoro”. [La7, 2017]

CONCLUSIONE

Includendola nella nuova versione dell’undicesima International Classification of Diseases (ICD), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2019, ha riconosciuto il burn-out come patologia. I sintomi sono tre:

  • esaurimento fisico e mentale;
  • distacco crescente dal proprio lavoro;
  • ridotta efficienza.

Il burnout, perciò, va visto come un fenomeno professionale, una situazione di disagio che può avere anche gravi conseguenze.

Quanto esplicato pone degli interessanti quesiti insoluti:

  • se l’identificazione organizzativa del lavoratore impedisse di percepire la sindrome? se la sindrome stessa divenisse cioè ego sintonica (in psicologia si definisce ego sintonico un qualsiasi comportamento, sentimento, sintomo o idea che sia in armonia con i bisogni e desideri dell’Io, o coerente con l’immagine di sé del soggetto), chi avrebbe il dovere di proteggere i lavoratori da una multinazionale le cui strategie organizzative sono del tutto volte al generare un’assenza di consapevolezza negli stessi?
  • in ambito forense, come si potrebbe valutare un danno psichico (emotivo, relazionale, sintomi ansiosi, vissuti depressivi) se la parte offesa in primo luogo non percepisce più alcuna correlazione tra il danno, i vissuti emotivi, e la sua stessa condizione socio – lavorativa?
  • come sta operando Amazon Italia nella gestione della percezione della propria identità sociale pubblica dal punto di vista mediatico, considerando le nuove nomine come ambassador di personaggi del calibro di Fedez o Achille Lauro che da anni, dal punto di vista artistico, si battono per i diritti civili – ma non per quelli sociali – dei lavoratori? E che effetto potrebbe avere questo sui lavoratori in termini di percezione del sé e sul dibattito pubblico?

Se necessiti di assistenza o vuoi far parte del network

Contattaci

NOTE (eventuale)

[1] ANGELI F. (2019), “Benessere organizzativo in sanità: una review della letteratura”, in “Mecosan: management ed economia sanitaria”, 110, 2

[2] DECASTRI M. (a cura di) (2016). “Leggere le organizzazioni. Le teorie e i modelli per capire”. Manuale di organizzazione aziendale I. Milano, Guerini

[3] GABRIELLI G., PROFILI S. (2016), “Organizzazione e gestione delle risorse umane”. Seconda Edizione, Torino, Isedi

[4] COSTA G., NACAMULLI R. C. D. (a cura di), “I processi, i sistemi e le funzioni aziendali”. Manuale di organizzazione aziendale. III, Torino, UTET Libreria

[5] HASLAM S. A. (2015), “Psicologia delle organizzazioni”, Rimini, Maggioli editore

[6] MALET J. B. (2013), “En Amazonie: Un infiltrato nel migliore dei mondi”, Roma, Kogoi edizioni

[7] HASLAM S. A., VIGANO V., ROPER H., HUMPHREY L., O’SULLIVAN L. (2003), “Social identification and burnout: evidence of a variable relationship across subcomponents”, Unpublished manuscript: University of Exeter

[8] HERZBERG F., MAUSNER B., SNYDERMAN B. (1959), “The motivation to work”, New York: Wiley

[9] BUQUICCHIO C., LOY M. (2013, 5, 12), “Ecco cosa succede dentro Amazon dopo aver cliccato su acquista…”, Youtube

[10] ILIO N., CASSINA P. (2017, 23, 4), “Con la spycam dentro Amazon, dove gli operai sono codici a barre”, Youtube

[11] AVANZI L., SCHUH S. C., FRACCAROLI F., VAN DICK R. (2015), “Why does organizational identification relate to reduced employee burnout? The mediating influence of social support and collective efficacy”, Work & Stress, 29, 1-10

[12] AVANZI L., FRACCAROLI F., SARCHIELLI G., ULLRICH J., VAN DICK R. (2014), “Staying or leaving: a combined social identity and social exchange approach for employee predicting turnover intentions”, International Journal of Productivity and Performance Management, 63, 272-289

[13] CROCETTI E., AVANZI L., SKYLER T. H., FRACCAROLI F., MEEUS W. (2014), “Personal and social facets of job identity: A person-centered approach”, Journal of Business and Psychology, 29, 281-300

[14] AVANZI L., ZANIBONI S., BALDUCCI C., FRACCAROLI F. (2014), “The relation between overcommitment and burnout: does it depend on employee job satisfaction?”, Anxiety, Stress and Coping, 27, 455-465

[15] AVANZI L., BALDUCCI C., FRACCAROLI F. (2013), “Contributo alla validazione italiana del Copenhagen Burnout Inventory (CBI)” / Contribution to the Italian validation of the Copenhagen Burnout Inventory (CBI)”, Psicologia della Salute, 2, 120-135

[16] AVANZI L., VAN DICK R., FRACCAROLI F., SARCHIELLI G. (2012), “The downside of organizational identification: relations between identification, workaholism and well-being”, Work & Stress, 26, 289-307

Lascia un commento